(articolo del 24 maggio 2008)
Quando recentemente IL TARLO, guardando un dibattito televisivo, ha sentito parlare di NUOVI POVERI, la sua mente traballante e spesso preda di lunghissimi black-out, per un attimo si è focalizzata sul concetto di povertà.
Ma cosa significherà mai? Dando un’occhiata a WIKIPEDIA ha trovato che per povertà si intende la condizione di
singole persone o
collettività umane nel loro complesso, che si trovano ad avere, per ragioni di ordine
economico, un limitato (o del tutto mancante nel caso della condizione di
miseria) accesso a beni essenziali e primari ovvero a beni e servizi sociali d'importanza vitale. Quindi,
il futile insetto è entrato in uno dei suoi lunghissimi dilemmi. “
Cosa avranno di particolare i NUOVI rispetto ai vecchi poveri? E i vecchi, sono tutti morti o non meritano più attenzione?”.
Qualcosa comunque è certo di averla capita: i problemi riguardano l’alloggio e spesso anche il cibo.
E come sempre, il sarcasmo lascia il posto all’amarezza ed il silenzio prende il sopravvento sulla loquacità di un animalaccio, sgradevole si….ma pur sempre pungente.
Ma i vecchi poveri, perché non vengono ricordati? Possibile che nessuno ha reminiscenze di loro o abbia qualcosa da raccontare?? Mah, che mondo infame!!!!
Quando ad un tratto la rabbia, che fino a quel momento gli ha offuscato il già obnubilato cervello si dirada, al TARLO viene in mente un passo dell’ILIADE: “Cantami o diva del pelide Achille, l'ira funesta che infiniti addusse, lutti agli Achei, morte anzitempo all'orco, generose travolse alme d'eroi e di cani e d'augelli orrido pasto lor salme abbandonò, così di giove l'alto consiglio si adempia, da quando primamente disgiunse aspra contesa il re de' prodi Atride e il divo Achille”.
Ma si!!! Ceeeerto che c’è qualcuno che può raccontare al TARLO dei “vecchi poveri”.
Detto fatto: uno squillo di celluTARLO ed ecco che il suo più caro amico, dopo qualche ora, è a disposizione dell’imenottero da strapazzo.
T- Caro il mio Adamo, è da un po’ che non ti fai vedere
A- Caro il mio Tarlo, io ho addirittura pensato che ti fossi dimenticato di me
T- E come potrei!!! Perché sei qui?
A- Perché tu mi hai chiamato!!
T- Già già…… Adamo, ti ricordi della povertà di un tempo?
A- Tarlo, tocchi un tasto dolente: io ricordo tutto quello che è successo nella mia vita dall’età di tre anni, ed
ogni volta ho come l’impressione che, quei tempi, anche se tristi e bui, hanno sempre un posto
privilegiato nel mio cuore.
T- Allora non perdiamo tempo e parlami di ciò che vuoi: l’importante e che tu mi faccia capire il senso della
povertà vista con gli occhi di una persona matura e degna come lo sei tu.
A- D’accordo Tarlo; come ricorderai dai numeri passati, la fame e spesso la disperazione, sono le costanti che accomunano un periodo di tempo in cui, purtroppo, il cibo e ahimè la casa, erano dei lussi. Figurati il resto.
T- Ho provato a capire, ma con tutto lo sforzo possibile, mi riesce difficile considerando che vivo nel superfluo e spesso non mi basta!
A- Dunque, per capire la difficoltà di reperire un alloggio e soprattutto il pane quotidiano, voglio parlarti di due personaggi caratteristici dell’epoca. Il primo, era un tale che di cognome faceva Siracusa. Era un giovane robusto che fin quando le forze glielo hanno permesso, ha badato alle campagne ed ai lavori stagionali che gli capitavano.
T- E poi?
A- Siracusa non aveva famiglia ne tantomeno una fissa dimora. Il fisico, oramai duramente provato dal lavoro e dall’età avanzata, si reggeva in piedi a stento e con l’ausilio di due bastoni. Poi, in quei tempi non c’era la pensione sociale o d’invalidità, per cui per la stragrande maggioranza delle persone, non rimaneva altro che chiedere l’elemosina……quando naturalmente c’era qualcuno disposto a concederla.
T- Perché, c’era gente che non era disposta a fare la carità?
A- Il problema era diverso: era talmente tanto il numero dei mendicanti che in alcuni giorni passavano, dalla stessa persona, diversi questuanti.
T- E come si comportava Siracusa in quei casi?
A- Beh, a dirla tutta non aveva un bel carattere ne tantomeno si faceva amare. Ricordo ancora quando, bussando in una porta per chiedere l’elemosina, si vide rispondere dalla signora, che erano appena passate le monache dell’orfanatrofio e che quindi purtroppo non poteva aiutarlo.
T- E come la prendeva lui?
A- Aveva risposte del tipo: “ a ‘cci ‘nne bagasci strati strati”!!
T- “Garbato”…..…il signor Siracusa.
A- E siccome di quelle giornate, era maledettamente pieno l’intero anno solare al povero Siracusa non rimaneva altro che rubare.
T- Allora era pure ladro??
A- Assolutamente no!! I suoi erano furti ad arte, cioè compiva il reato per farsi arrestare.
T- E come mai?
A- Perché in galera aveva un tetto e del cibo, che fuori la realtà locale gli negava.
T- Quindi diciamo che Siracusa era un “cliente abituale” del carcere?
A- Direi di più; era uno di famiglia e con Don Peppe, il carceriere, avevano rapporti cordiali e di confidenza.
T- Quando, usciva di galera?
A- Di solito a primavera, perché le giornate erano più lunghe e soprattutto più calde.
T- Quindi Siracusa era un “carcerato stagionale”?
A- Si, fino a quell’anno in cui, venuta la primavera, era arrivata con essa la data di scarcerazione di Siracusa. Purtroppo quello fu un inverno rigido e soprattutto lungo, tant’è che fuori, al posto del sole, c’era tantissima neve.
T- E Siracusa come si comportò?
A- Quando venne Don Peppe e gli disse: “E domani matina finalmente Siracusa nesci?”, - lui rispose – “Caru Don Peppi, dumanu matina Siracusa ‘nun nesci propria”!
T- Un rarissimo caso di affezionato del rancio carcerario.
A- Non proprio raro; basti pensare al simpaticissimo Don Totò, che al contrario di Siracusa, era gioviale e solare nonché padre di una famiglia numerosa, ma come Siracusa, un cliente fidelizzato del carcere specie durante la stagione invernale.
T- Anche lui ladro?
A- Sia lui che Siracusa non erano affatto rapinatori. Li possiamo definire come delle persone che chiedevano merce o animali “in prestito”, senza però che i proprietari ne fossero a conoscenza.
T- Spiegati meglio!
A- Don Totò ad esempio, quando giungeva l’inverno, passava da uno di quei vicoli dove sostavano capre o pecore davanti la porta dei proprietari, ne prendeva una e la portava con se. Il bello è che faceva un giro talmente lungo da transitare nelle vie più affollate del paese in modo tale che tutti lo vedessero.
T- Metteva in “bella mostra” il corpo del reato insomma?
A- Esattamente. E durante uno di questi “giri turistici”, Don Totò incontrò le guardie, che non gli chiesero neanche se fosse sua. Restituita la capra al legittimo proprietario, trasferirono nel carcere di San Domenico Don Totò e lo consegnarono all’onnipresente Don Peppe, il quale vedendo il “solito” arrestato disse:
“ Don Totò, mi pariva can nun avivivu a fari ‘cchiù sti cosi?”
T- E Don Totò, come rispose?
A- Sfregandosi le mani dalla contentezza ed alzando gli occhi al tetto della sua “solita” cella esclamò: “Casuzza mia, casuzza mia, a cuamu ‘ccè stari luntanu di tia!!!”